venerdì 24 giugno 2016

Il rigetto del Potere

Ho la sensazione che ci sia una sorta di filo rosso che lega i risultati delle elezioni amministrative in Italia ed il risultato del referendum sulla permanenza nella UE in Gran Bretagna. 

Quello che a me sembra un filo di connsessione è il senso di rifiuto, di rigetto che la gente comune (i senza-potere, le periferie in senso molto ampio) ha nei confronti del potere "istituzionalizzato". In entrambi i casi si percepisce un comprensibile sentimento di delusione, di risentimento, la volontà di rivincita e di rivalsa: in questo modo viene a galla il potere dei senza potere (frase credo da attribuire a V. Havel).

Sia nel caso italiano che in quello britannico la gente rigetta la politica inetta ompletamente sottomessa alla finanza: nemmeno all'economia, ma proprio ai grandi gruppi finanziari e alle banche che si arricchiscono in modo parassitario sottraendo ricchezza alla società e all'economia reale. L'Europa che i britannici hanno rigettato è una parodia dell'Europa che immaginavamo. Sono decenni che si denuncia la totale distanza delle istituzioni europee dalle comunità locali e dalla società europea nel suo complesso. E' stata respinta un'Europa fatta di burocrati ottusi e non di politici: la prevalenza dei tecnici della Commissione Europea (non eletta dai cittadini) su un Parlamento Europeo depotenziato contribuisce a creare un'immagine dell'Europa più simile al Castello di Kafka che all'Europa sognata nel Manifesto di Ventotene.

Il risultato è che nel passato gli Stati facevano la fila per entrare nell'Europa, ora si metteranno in fila per uscirne. 

Bisogna pertanto cominciare a costruire una nuova o rinnovata realtà Europea, una vera casa comune europea per poter uscire da questa aberrazione ed entrare in una realtà dove non siano i finanzieri o i banchieri a decidere le sorti delle comunità.

Lo stesso è accaduto nelle grandi città italiane: la politica (con il suo familismo amorale, i suoi giochini e i suoi intrallazzi) è distante anni luce dalla realtà della gente che si sente "periferia" rispetto al potere. Talmente distante che non è più nemmeno identificata come politica, ma solo come "braccio operativo" delle banche, delle grandi società finanziarie, degli interessi di poche lobby. Insomma di tutte quelle componenti della società che si arricchiscono solo mandando in rovina l'economia ed ampi strati della collettività.

Serve un'inversione di tendenza inequivocabile ed immediata, perchè altrimenti il futuro sarà drammatico. Non si possono creare norme e leggi solo per questioni finanziarie o finte riforme che sono solo fumo neglio occhi scendendo sempre a patti con interessi particolari: bisogna cominciare finalmente a porre delle regole per la convivenza civile affinchè sia appunto la più civile e decente possibile per tutti. La politica deve operare per restituire dignità alle persone e alle comunità nel loro complesso.

I grandi e complessi mutamenti e fenomeni sociali (come l'immigrazione massiva, la disoccupazione o la penetrazione totale della criminalità organizzata in tutti gli ambiti della realtà nazionale) non possono essere affidati a dei ragionieri-contabili, al caso o alla buona volontà della gente. Essi devono essere affrontati, regolati, normati in modo chiaro: devono essere "gestiti" all'interno di una visione molto ampia. Serve urgentemente un New Deal.

La complessità e la trasformazione sociale non è mai stata realmente al centro di nulla, al di là dei proclami, nè in Italia, nè a Bruxelles. A cosa serve un'unione monetaria o rigorose politiche contabili e di bilancio se la società nel frattempo si sfarina, si sfalda, si disintegra? Non si è vista traccia di alcunchè in questi decenni su tutte quelle materie che sono alla base della costruzione di una società decente: e questi sono i risultati. La ribellione delle periferie.


venerdì 10 giugno 2016

Il "posto" ereditato

La società italiana è sempre più bloccata. E questo si riverbera sulle dinamiche del lavoro dove è ormai più che evidente un congelamento dei gruppi sociali e delle relative attività lavorative. 

E' diventato infatti difficilissimo accedere ad una carriera nel settore pubblico: prima magari servivano le raccomandazioni, ma in qualche modo si riusciva ad entrare da qualche parte. Oggi non è più praticamente possibile. Ormai i cosiddetti "posti pubblici" vengono trasmessi in qualche modo di padre/madre in figlio/figlia grazie a oscure logiche "interne". Per dimostrare l'evidenza di questa realtà basterebbe verificare il ricorrere dei cognomi (anche quelli materni) dentro gli enti pubblici: ospedali, università, ministeri, enti regionali e comunali fino alle carriere militari. Ovviamente questa regola non vale per tutti: vale per i dipendenti pubblici "che contano" e che hanno sviluppato delle solide relazioni. Gran parte delle attività svolte dentro gli enti pubblici si fonda proprio su questo: creare una efficiente rete di relazioni e conoscenze per garantire alla prole un avvenire. Se non sei capace o non ci riesci sei fuori tu e tutti i tuoi figli. Non c'è niente da fare.

Del resto, come dipendente pubblico, da alcuni anni ho a che fare sul lavoro con i figli dei dirigenti che ho incontrato anni fa, quando sono stato assunto.

Lo stesso avviene nel settore privato. Chi ha un'attività imprenditoriale cercherà in tutti i modi di lasciarla ai figli: e questo mi sembra più che giusto. Il problema è che il settore privato non è un ambiente facile per i "nuovi entranti". Una valanga di ostacoli ed impicci si frappongono fra chi vorrebbe mettersi in proprio e la reale costruzione di un'attività imprenditoriale. La probabilità del fallimento è elevatissima. Con tutte le piccole, piccolissime imprese che caratterizzano l'economia italiana, è molto difficile essere assunti di questi tempi.

Se sei notaio, tuo figlio/ sarà notaio; se sei oculista tuo figlio/figlia sarà oculista (o cumunque medico); se sei militare, tuo figlio/figlia sarà militare; se sei macellaio, tuo figlio/figlia sarà macellaio/a; ecc...

Insomma è tutto fermo: è tutto bloccato. Non c'è più mobilità sociale, perchè non ci sono opportunità ed ognuno si coltiva il proprio esclusivo orticello.

Negli anni 50, 60, 70 questa mobilità comunque ha contribuito notevolmente allo sviluppo economico nazionale: filgi di operai che diventavano ingegneri, figli di medici che diventavano imprenditori, figli di contadini che diventavano piloti di linea. Oggi non c'è niente di simile.

Io, come genitore di un fliglio diciottenne francamente non so bene cosa fare: sono un dipendente pubblico ma non sono capace di armeggiare e "darmi da fare" per creare un sottobosco di relazioni ed amicizie strategiche ed interessate per preparare un posticino di straforo a mio figlio: non voglio nemmeno farlo. Nel settore privato saremmo fatti a pezzi e rovinati in pochi secondi.

Un tempo mia padre mi diceva che se avessi studiato e mi fossi rimboccato le maniche sarei riuscito a crearmi un futuro: con gli attuali chiari di luna in Italia io come padre non sono in grado di dire la stessa cosa a mio figlio. E questo è molto seccante.

Qualunque opzione nello studio non apre alcuna possibilità futura: inoltre o studi tanto o studi pochino, altri sono i criteri per la selezione del personale. 

Insomma anche la speranza in Italia mi sembra morta. Non c'è futuro perchè non ci sono le premesse per poter costruire qualcosa onestamente. 

L'unica cosa che al momento posso suggerire a mio figlio è di imparare bene l'inglese, viaggiare all'estero il più possibile (osservando quello che succede altrove, imparando il più possibile dalle buone pratiche e imitando come facevano un tempo i giapponesi e i cinesi) e poi alzare i tacchi il prima possibile da qui.