martedì 20 maggio 2008

Ma veramente “ormai non c’è niente più da fare”?

“Anche nei tempi più bui abbiamo il diritto di attenderci una qualche illuminazione che potrebbe giungere non tanto da teorie e nozioni astratte quanto dalla incerta, tremolante e spesso flebile luce che alcuni uomini e donne, nella loro vita e con il loro operato accenderanno pressoché in qualsiasi circostanza e diffonderanno durante il tempo che è stato loro concesso in terra”.

Queste belle parole di Hannah Arendt mi sembrano particolarmente utili per introdurre un tema molto sensibile che credo che alla fine si collochi alla base dell’attuale modello perverso di sviluppo economico e sociale. Spesso infatti ci sentiamo come degli spettatori inermi ed impotenti di fronte a scriteriati modelli di consumo, al degrado ambientale, al senso di irresponsabilità etica e politica; ci rendiamo anche conto delle situazioni particolarmente problematiche in cui siamo costretti a vivere, ma ci sentiamo appunto come degli spettatori che sentono di non poter fare nulla per cambiare questo stato di cose. La cosa ulteriormente scioccante è constatare lo stesso senso di impotenza anche nei decisori politici sia a livello locale che nazionale o internazionale: quante volte mi è capitato di parlare con personaggi più o meno di rilievo del panorama politico italiano e mi sono sentito dire, nel momento in cui chiedevo un impegno ad esempio sui temi dello sviluppo rurale sostenibile, “Belle parole, ma come si fa? In pratica sono cose irrealizzabili perchè la politica segue altre logiche, ci sono troppi interessi in ballo!”. Insomma veniva fuori che chi si dovrebbe occupare del benessere di tutti, alla fine ti dice che lui, da solo, non può fare nulla e che bisogna sempre addivenire a dei compromessi. Questo allora significa che anche chi sta “in alto” non può fare niente e che quindi siamo su un treno in corsa senza un macchinista lanciati a tutta birra lungo un binario morto. Questo appare anche più drammatico se si pensa ad esempio alle tante scelleratezze che vengono compiute ai danni dell’ambiente o della salute pubblica o dei crimini “alimentari” o farmaceutici; sappiamo tutti che questo ci porta alla rovina ma intanto accontentiamoci di tirare a campare per il presente. Poiché la politica cammina sul breve periodo, per la vicinanza delle scadenze elettorali, mentre i problemi dell’etica pubblica, dell’ambiente, dell’economia sostenibile o della sicurezza sono di lungo periodo, ecco che le strategie e le modalità che vengono individuate per fare fronte a queste problematiche amplificano l’inefficacia e l’inconsistenza di che le promuove “dall’alto” aumentando in tutti noi l’idea che: è vero siamo di fronte a problemi epocali, come ad esempio il cambiamento climatico, ma non si può fare nulla!! L’impressione è quindi che la scuola non è più gestibile, la sanità pubblica non è più gestibile, la malavita organizzata non è più gestibile, Napoli non è più gestibile, il clima non è più gestibile, ecc… Credo che un certo tipo di politica in Italia riesca a sopravvivere grazie a questo diffuso senso di impotenza che invece costituisce il principale nodo che debba essere affrontato e risolto ancor prima di qualsiasi altro problema che si può collocare alla base di un più o meno corretto sviluppo economico e sociale: ancor prima della legalità, della sostenbilità ambientale, delle problematiche energetiche bisogna riappropriarsi del senso di responsabilità individuale e collettiva e della volontà quantomeno di tentare di gestire in qualche modo i processi all’interno dei quali siamo immersi. Il punto critico di tutta la discussione si nasconde proprio nella possibilità di rivedere la società come “una proprietà comune” all’interno della quale quello che io faccio in un modo o nell’altro “conta”. La ri-appropriazione di questa coscienza deve servire a dare un senso ed una direzione al proprio impegno politico e sociale. Tutte le volte che al mattino mi sveglio o poco prima di addormentarmi la sera mi domando sempre: che senso ha tutto questo sforzo che faccio? Che senso ha comprarsi una (sia pur efficientissima) orrenda Toyota Prius quando il mio vicino di casa scorazza con un mastodontico SUV che consuma carburante ed inquina come una centrale termoelettrica? Che senso ha impegnarsi per attività culturali all’interno di una piccola comunità locale quando l’ideale dei più è Eurodisney? Che senso ha difendere i prodotti tipici, biologici o della filiera corta, quando il mio solito vicino di casa pretende i pomodorini in pieno inverno? Perché insistere con tutte queste questioni che non fanno altro che inimicarmi un sacco di persone, bloccarmi la carriera lavorativa e crearmi una marea di problemi anche a livello politico? Perché non faccio come tutti e mi faccio gli affari miei? Francamente non sono ancora riuscito a darmi una risposta soddisfacente a queste domande: comunque continuo sempre a tirare dritto per la mia strada. Torno però alle parole di Hannah Arendt e mi convinco sempre di più che il vero cambiamento possibile non potrà mai scendere dall’alto ma si legherà alle tante piccolissime azioni di tante persone: lasciamo perdere i mega-progetti e le mega iniziative e cerchiamo piuttosto, come scrisse anche V. Havel, di far valere “Il Potere dei Senza Potere” nell’infinità delle piccole cose.

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