Da tanto tempo in Italia si parla di precariato. Si tratta di un fenomeno difficile da spiegare agli osservatori stranieri perché da noi il lavoro a tempo determinato ha delle connotazioni precise che lo rendono un fenomeno singolare che tuttavia esemplifica in modo molto chiaro come da noi funzionano certe cose. Il precariato nasce come sinonimo di “flessibilità” (come del resto avviene in tutti i paesi “normali”) per dare la possibilità a chi detiene elevate competenze e professionalità di cambiare lavoro e di poter spuntare stipendi più alti. In Italia però regnano le raccomandazioni e quindi anche la flessibilità (come avviene per molti beni pubblici come la salute, la qualità ambientale, la scuola, l’università, ecc…) viene concessa come un privilegio. Il lavoro temporaneo non è un’opportunità: è un incubo. Il precario deve lavorare per dieci, non si può mai rifiutare di svolgere il compito che gli è stato affidato anche se non ha nulla a che vedere con il lavoro che dovrebbe svolgere, non può parlare, non può criticare, non può protestare: semplicemente perché è ricattato. Più il precario è anziano (35 anni in poi) maggiormente può essere ricattato perché se perde il lavoro non ne troverà tanto facilmente uno nuovo. Se all’estero il lavoro è veramente flessibile perché esiste la regola del hire and fire (licenzia ed assumi) in Italia esiste solo il “licenzia”. Il precario è succube di tutti: succube del dirigente per cui lavora, succube della persona che lo ha raccomandato, succube del “politichino” di turno, succube dei colleghi “a tempo indeterminato”. L’aspetto più triste del precariato è poi la “guerra fra poveri” ovvero lo scontro fra precari messi l’uno contro l’altro: ognuno cerca di difendere quel poco che ha secondo la regola mors tua vita mea. Questa è la vita del precario di Serie B perché esistono i precari di Serie A: si tratta di solito dei “figli di…” che in attesa del posto fisso vengono assunti a tempo determinato dato che in questo modo si scavalcano le procedure di assunzione ortodosse o il blocco delle assunzioni. Il precario di Serie B svolge sempre una mansione di basso profilo, mentre quello di Seria A ottiene dei contratti stratosferici. Allo stesso modo diventano precari di Serie A molti “amici consulenti” o gente che va in pensione (con pensioni elevatissime) e continua a lavorare con un salatissimo contratto a tempo determinato. La nostra pubblica amministrazione è piena di queste situazioni. Il precariato di Serie B è un male sociale perché tende a precarizzare e a rendere vulnerabili le esistenze di tante persone (soprattutto i giovani e le donne): il precario non vive, non dorme, non riesce a costruirsi una vita, non riesce a formarsi una famiglia. La nostra società poggia su generazioni di depressi e di “deboli” anche politicamente perché il precario facilmente finisce nelle maglie dei procacciatori di voti e nel meccanismo circolare del do ut des: oltre a non essere libero di vivere, il precario non è nemmeno libero di esprimere il suo pensiero. A parte la fuga da questo Paese, al momento non so suggerire una soluzione a questa malattia che, stando così le cose, sembra incurabile come tante altre malattie di casa nostra che derivano alla fine dalla stessa causa ovvero il rapporto perverso fra la società e la politica.
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